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Alla parola Carnevale siamo abituati ad associare un periodo dell'anno: durante l'inverno, alcune settimane dedicate a festeggiamenti in maschera, per affrontare senza paura situazioni sociali altrimenti considerate imbarazzanti. Affascinata dal problema insito nell'istituzione carnascialesca, fin da bambina ho dato molta importanza sia ai costumi teatrali, sia al trucco ed alle maschere con le quali interpretare ruoli definiti dalla tradizione. Quando gli adulti ci ponevano la domanda "cosa vuoi fare da grande?" ricordo una compagna di scuola rispondere "la suora", un compagno "il muratore di case piccole", un altro "il soldato", una "la mamma", un'altra "il dottore". Io rispondevo "desidero continuare a giocare": il problema infatti per me non è mai stato quale ruolo assumere, ma come comunicare la mia essenza profonda attraverso il linguaggio condiviso. Come nell'insegnamento una definizione è necessaria per limitare, circoscrivere, le possibili domande che animeranno il dialogo educativo, così l'immagine che ognuno di noi propone di sé stesso e del suo proprio ambiente serve a definire l'ambito nel quale gli altri possono interagire. In città, il gioco al femminile è considerato destabilizzante per la componente maschile: per questo motivo, quando sono stata invitata da Alessandro a valutare l'acquisto condiviso della proprietà collinare del Carnevale mi è sembrata un'ottima occasione ludica, ed accettando ho commentato sorridendo "... et ego in Arcadia ..."
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